
Stress sul lavoro e responsabilità del datore: la sentenza della Cassazione (www.greenstyle.it)
Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha stabilito un principio fondamentale per la tutela della salute dei lavoratori.
Il caso esaminato ha riguardato un’avvocatessa impiegata presso l’Azienda Servizi Sociali di Bolzano, che aveva denunciato ripetuti comportamenti stressogeni da parte del direttore generale dell’ente. La lavoratrice ha segnalato atteggiamenti pretestuosi e pressanti che hanno causato un danno biologico, riconosciuto dai giudici come conseguenza diretta delle condotte del superiore.
La Corte ha precisato che lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing, caratterizzata dalla mancanza di continuità nelle azioni vessatorie, ma che può comunque provocare danni all’integrità psico-fisica del lavoratore. In questo senso, le condotte stressogene, anche se isolate, sono suscettibili di ledere la salute del dipendente e integrano una violazione del dovere del datore di lavoro di tutelarne la personalità morale e fisica.
Il fondamento giuridico della responsabilità datoriale si basa sull’articolo 2087 del codice civile, che obbliga il datore a prevenire ogni situazione che possa mettere a rischio la salute e la dignità del lavoratore. La Corte ha sottolineato che tale norma deve essere interpretata in modo estensivo, andando oltre la mera prevenzione antinfortunistica per includere anche la tutela contro situazioni di stress e disagio psichico derivanti dall’ambiente lavorativo.
Ambiente lavorativo: non solo luogo fisico ma contesto psico-sociale
Un aspetto centrale della sentenza riguarda proprio la definizione di ambiente di lavoro. Non si tratta solo del luogo fisico in cui si svolge la prestazione, ma di un contesto più ampio che comprende tutto ciò che circonda il lavoratore e incide sul suo equilibrio psicofisico.
Secondo la giurisprudenza e la dottrina più aggiornata, l’ambiente lavorativo deve essere progettato e gestito in modo da garantire il rispetto dell’integrità fisica e morale del dipendente. Ciò implica che il datore di lavoro deve non solo astenersi da condotte dannose, ma anche intervenire attivamente per evitare che si creino condizioni di stress o tensione che possano compromettere la salute del personale.
Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che la conflittualità interna all’ufficio avrebbe richiesto al datore di lavoro di adottare misure adeguate per ristabilire un clima sereno, anche attraverso l’uso del potere disciplinare. La mancata adozione di tali provvedimenti ha comportato la responsabilità dell’ente per “straining”, considerata una forma attenuata di mobbing che, pur senza pluralità di azioni vessatorie, può comunque produrre effetti dannosi.

La sentenza rappresenta un importante monito per i datori di lavoro, che devono monitorare attentamente le dinamiche interne ai propri uffici e strutture, intervenendo tempestivamente per prevenire situazioni di stress e disagio. La tutela della salute mentale e fisica del lavoratore non è più un’opzione, ma un obbligo giuridico stringente, la cui violazione può comportare conseguenze economiche rilevanti per l’azienda.
Per i lavoratori, invece, si apre una strada più chiara per ottenere un risarcimento in caso di danni derivanti da un ambiente lavorativo malsano. Anche in assenza di una persecuzione sistematica, è infatti possibile dimostrare il diritto a un risarcimento se si prova che le condizioni di lavoro e i comportamenti adottati dal datore hanno causato un danno biologico.
In definitiva, questa pronuncia della Corte di Cassazione rafforza il principio secondo cui la salute psico-fisica del lavoratore deve essere tutelata in modo ampio e rigoroso, includendo anche forme di stress lavorativo non necessariamente costanti o intenzionali, ma comunque dannose.