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Fusione fredda: cosa bisogna sapere

I recenti sviluppi nella ricerca hanno riportato all'attenzione del mondo una tecnologia che potrebbe cambiare il futuro dell'energia: la fusione fredda

Fusione fredda: cosa bisogna sapere

Da oltre vent’anni, precisamente dal 1989, la comunità scientifica internazionale discute sul controverso tema della cosiddetta “fusione fredda”. A riportare prepotentemente al centro dell’attenzione questo argomento sono stati due italiani: Sergio Focardi, professore emerito di Fisica presso l’Università di Bologna, e Andrea Rossi,un ingegnere bolognese.

Risale a pochi giorni fa la conferenza stampa in cui hanno presentato E-Cat, un catalizzatore di energia alimentato con una fusione a basse temperature e con cui promettono nel futuro rivoluzioneranno il mondo. Due le critiche principali mosse all’esperimento, ben sintetizzate nelle parole del direttore dell’Infn di Bologna, Antonio Zoccoli:

Innanzitutto non bisognerebbe parlare tanto facilmente di fusione, quello che è stato pubblicizzato venerdì è stato un dispositivo che produceva energia. Bisogna verificare due cose: che la produzione di energia sia reale e come questa energia è stata prodotta. Perché è vero, molte volte in passato ci sono state scoperte ottenute in via sperimentale poi spiegate in maniera teorica, ma la nostra misura sperimentale non porta alcuna evidenza che in questo caso ci siano state reazioni nucleari.

Queste dichiarazioni aprono un nuovo campo di discussione, oltre quello ovvio della reale portata energetica della scoperta: si tratta realmente di un particolare tipo di “fusione a freddo“, oppure è “semplicemente” un nuovo impianto di produzione energetica? I dubbi al momento restano, non fugati nemmeno dalle spiegazioni fornite dallo stesso Focardi in un’intervista rilasciata su Panorama.it:

I raggi gamma non c’erano perché noi siamo stati in grado di eliminarli mettendoci il piombo. Nelle sperimentazioni che abbiamo effettuato con l’ingegnere Rossi i gamma ci sono sempre stati, ma erano talmente poco intensi rispetto alla radioattività naturale, che con piccoli spessori di piombo li abbiamo eliminati scongiurando qualsiasi possibile danno alla salute delle persone.

Capire i dubbi di Zoccoli o le certezze di Focardi passa per forza attraverso una maggiore comprensione di quella che viene effettivamente intesa come “fusione fredda“. Partiamo quindi dal 1989, quando si iniziò a parlare di questa tecnologia in seguito agli esperimenti condotti da una coppia di scienziati della Salt Lake City University, nello Utah.

Il termine fu in realtà coniato da Paul Palmer nel 1986, all’interno di una ricerca sulla geo-fusione, ma fu tre anni più tardi con Martin Fleischmann e Staney Pons che questo “miracolo” attirò davvero l’attenzione del mondo. Il periodo in cui annunciarono la scoperta, utile da sottolineare per capire meglio la grande aspettativa generata, era simile a quello che stiamo vivendo in questi mesi, con un disastro nucleare avvenuto da pochissimo e non ancora del tutto alle spalle (allora fu Chernobyl, ora Fukushima).

Nell’esperimento che i due chimici presentarono al mondo il 10 marzo 1989, affermarono di aver realizzato la tanto auspicata reazione a freddo. All’interno di un vaso di Dewar (costituito da una doppia parete di vetro al cui interno era stato creato il vuoto) veniva introdotta dell’acqua pesante (2H2O) e scatenata una reazione sfruttando un anodo rappresentato da un elemento di platino, mentre per il catodo si era ricorso a un elemento in palladio. La reazione nucleare, secondo i due ricercatori, era dimostrata dalla presenza di un raro isotopo stabile dell’elio (3He), ritenuto la “cenere” derivata dalla reazione atomica.

Quando si parla genericamente di “fusione fredda” si intende:

Un nome generico attribuito a presunte reazioni di natura nucleare, che si produrrebbero a pressioni e a temperature molto minori di quelle necessarie per ottenere la fusione nucleare “calda”, per la quale sono invece necessarie temperature dell’ordine del milione di kelvin e densità del plasma molto elevate. – Definizione Wikipedia

Ad un primo sguardo non esisterebbero quindi dei parametri particolarmente rigidi con cui raggiungere l’obiettivo, ma varie possibilità di realizzazione con l’unico vincolo rappresentato dall’esito finale: ottenere nuova energia producendo reazioni nucleari a basse temperature. Differente perciò quanto avviene ora nelle centrali atomiche attuali, mini-reattori compresi, alimentate a uranio o in alternativa con il torio, dove si raggiungono temperature elevate sfruttando la già ben nota “fusione calda”.

Secondo i sostenitori della nuova tecnologia le metodologie di realizzazione sarebbero due: la Catalizzazione da muoni e il Confinamento chimico. La prima applicazione si baserebbe sulla sostituzione con una particella di muone dell’elettrone dell’atomo e presentando, come principale vantaggio, il fatto di persistere anche dopo la reazione e di poter essere riutilizzati in successive operazioni.

Lo svantaggio è dato dal fatto che, avendo una massa di molto superiore a quella atomica consueta (circa 200 volte), secondo il principio di conservazione del momento angolare dovrebbe orbitare molto più vicina al nucleo, schermando quindi maggiormente la reazione elettrica. Il risultato è una produzione energetica ricavata che non risulterebbe conveniente, almeno con gli attuali mezzi tecnologici.

Modello Fleischmann-Pons

Più complesso il discorso per quanto riguarda il Confinamento chimico, che a sua volta si divide in tre diverse tipologie:

  • Cella elettrolitica (Freischmann e Pons);
  • Cella al Plasma elettrolitico (Ohmori e Mizuno);
  • Cella a gas di Deuterio o Idrogeno (Focardi e Piantelli).

Oltrepassando la Cella elettrolitica, di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti, vediamo ora la Cella al Plasma elettrolitico, opera degli scienziati giapponesi Tadayoshi Ohmori e Tadahiko Mizuno. Una tecnologia che ricorda non solo nel nome quella suddetta di Freischmann e Pons.

Al base c’è sempre una cella elettrolitica riempita ad acqua, distillata in questo caso, all’interno della quale come catodo viene introdotta una barra di tungsteno. A renderla non conveniente al momento sono proprio gli oltre 3.400 ° prodotti dalla bolla di plasma che si forma all’interno della barra stessa. Una volta raggiunti porterebbero a fusione il tungsteno (in rapporto di alcuni centrimetri all’ora a un regime compreso tra i 200 e i 500Kw prodotti) causandone un eccessivo consumo.

Migliori sembrano le prospettive attuali per il terzo e ultimo tipo di Confinamento chimico: la Cella a gas di deuterio o idrogeno. Nella prima versione, realizzata da Yoshiaki Arata riempiendo la cella dove sono posti 7 grammi di nano particelle di palladio con deuterio a 50 atmosfere, si genera un calore costante e sufficiente al funzionamento di un motore a ciclo Stirling (per la trasformazione del calore in energia elettrica).

Il vantaggio principale, di non poco rilievo, è il funzionamento di questa tecnologia senza alcuna energia di ingresso. Purtroppo, come ammette lo stesso Arata, risulterà scarsamente conveniente fino a quando non si troverà modo di sostituire il costoso palladio con un elemento più diffuso e quindi a buon mercato.

Infine quella che al momento rappresenta la principale speranza per i sostenitori della “fusione fredda”, ovvero la tecnologia intuita già nel 1989 dal biofisico Piantanelli insieme al fisico Focardi e da questi ripresa insieme all’ingegnere Andrea Rossi nel 1996. In sintesi, la procedura consisterebbe nell’uso di una barra di nichel e di gas idrogeno, così come spiegato dal fisico:

Abbiamo riscaldato a una temperatura non molto alta un sistema formato da nichel e idrogeno con il risultato che il nucleo di idrogeno è penetrato nel nucleo di nichel generando una reazione nucleare che ha liberato energia.

Restano da attendere i prossimi sviluppi, le conferme sull’effettiva applicabilità di questo tanto sperato “miracolo” come fonte energetica e alcuni chiarimenti riguardo la stessa metodologia, ancora in parte coperta da segreto industriale per via della mancata conclusione della pratica di brevetto.

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