Sapete quanto guadagna un prete in Italia? La cifra record - greenstyle.it
Tra missione spirituale e sostegno economico, ecco come funziona davvero lo “stipendio” dei sacerdoti italiani.
Ogni anno, migliaia di persone digitano su Google la stessa domanda: “Quanto guadagna un prete?” È una curiosità che nasce da un misto di sorpresa e di mistero. Da un lato, il sacerdote è percepito come una figura lontana dal denaro; dall’altro, la Chiesa cattolica è una delle istituzioni più strutturate, e anche più ricche, del mondo. Ma come si conciliano spiritualità e sostentamento economico?
La risposta non è immediata. Lo stipendio di un prete non è paragonabile a quello di un impiegato pubblico o di un dirigente d’azienda. Non si parla, tecnicamente, di “busta paga”, bensì di un sistema chiamato Sostentamento del clero, gestito dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI). Dietro a queste tre parole si nasconde un meccanismo complesso, che intreccia donazioni, 8×1000 e contributi statali.
Un sacerdote, in fondo, non lavora per guadagnare, ma per servire. Tuttavia, anche lui deve pagare le bollette, fare la spesa e spostarsi tra parrocchie spesso lontane. Ecco perché la Chiesa ha istituito un sistema che garantisce a ciascun prete una vita dignitosa, senza eccessi ma senza rinunce essenziali.
Come funziona davvero il “sostentamento del clero”
Il reddito dei sacerdoti italiani si calcola attraverso un sistema a punti stabilito ogni anno dalla CEI. Ogni punto vale circa 13,12 euro lordi, e il punteggio varia in base all’anzianità e al ruolo. Un giovane prete appena ordinato parte da 80 punti, cioè circa 1.050 euro lordi al mese, mentre un vescovo può arrivare a 138 punti, superando 1.800 euro lordi mensili.
Queste cifre rappresentano una soglia minima: se il sacerdote svolge altri incarichi, ad esempio come insegnante di religione o cappellano militare, può percepire compensi aggiuntivi dal proprio datore di lavoro, spesso lo Stato. L’Istituto centrale per il sostentamento del clero interviene solo se il totale annuo scende sotto la soglia fissata, integrando la differenza.
Accanto a questo reddito, le parrocchie offrono alloggio e un piccolo rimborso per le spese domestiche, in media intorno ai 100 euro al mese. Un aiuto simbolico, ma utile soprattutto nelle zone più povere o isolate, dove il parroco spesso si fa anche tuttofare, contabile e psicologo della comunità.

Diversa la situazione per suore e frati, che nella maggior parte dei casi non percepiscono uno stipendio fisso. La loro vita è comunitaria e si basa sul voto di povertà. Molti lavorano come infermieri, insegnanti o operatori sociali, ricevendo il salario previsto dai contratti collettivi nazionali, ma il denaro confluisce quasi sempre nella cassa comune del convento.
Il sostentamento dei sacerdoti proviene in gran parte dalle donazioni dei fedeli e dall’8×1000 destinato alla Chiesa cattolica. Questi fondi vengono gestiti in modo centralizzato e redistribuiti per garantire equità tra le diocesi più ricche e quelle più povere. È un sistema che, nel tempo, ha permesso di evitare differenze troppo marcate e di mantenere una certa trasparenza contabile, anche se non mancano le critiche.
In media, dunque, un prete italiano guadagna tra 1.000 e 1.500 euro al mese. Non una cifra “record” nel senso comune del termine, ma sufficiente a vivere con dignità e coerenza rispetto al proprio voto di sobrietà. Dietro quei numeri, però, c’è un equilibrio delicato: quello tra vocazione e necessità, tra spiritualità e amministrazione.
E forse è proprio questa la vera particolarità del loro reddito: un guadagno che misura non il valore economico del lavoro, ma la continuità di una missione che, da secoli, vive di fede e di fiducia.
