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Inquinamento: tra i rifiuti anche i batteri resistenti agli antibiotici

Non solo rifiuti, l'uomo inquina l'ambiente anche con i batteri resistenti agli antibiotici: ecco perché le specie animali sono a rischio.

Inquinamento: tra i rifiuti anche i batteri resistenti agli antibiotici

Fonte immagine: Pixabay

Non sono solo i rifiuti a minare la sopravvivenza degli habitat naturali, l’uomo danneggia l’ambiente anche in modo più subdolo e indiretto. Ad esempio favorendo la circolazione di batteri resistenti agli antibiotici, un problema che ha sia implicazioni ambientali che sanitarie. Il massiccio ricorso agli antibiotici, e le sempre più frequenti resistenze, stanno infatti pregiudicando le possibilità di cura dell’uomo e modificando la capacità di adattamento degli animali al loro ambiente. È quanto spiega Michelle Power, docente di scienze biologiche per la Macquarie University, in un lungo intervento pubblicato da The Conversation.

L’esperta spiega infatti come molti batteri mutati – i cosiddetti “superbug” – siano passati dall’uomo agli animali, mettendo in pericolo la sopravvivenza di numerose specie.

Batteri resistenti agli antibiotici: l’impatto animale

A partire dagli anni ’50 del secolo scorso, il ricorso agli antibiotici per la cura dell’uomo è diventato massiccio. Per molti decenni questi farmaci sono stati somministrati con una certa leggerezza, anche quando non immediatamente indispensabili o utili, e così molti batteri hanno sviluppato una specifica resistenza. In altre parole, su questi microorganismi i farmaci in questione non hanno più alcun effetto. Lo stesso è avvenuto anche in ambito animale, soprattutto all’interno degli allevamenti intensivi, dove l’impiego di antibiotici a scopo preventivo è stato per molto tempo la prassi.

I batteri resistenti agli antibiotici rappresentano un grave pericolo per l’uomo, poiché si riduce sensibilmente il numero di farmaci efficaci per trattare pericolose infezioni, ma anche per gli animali. Oltre alla farmaco-resistenza negli allevamenti, i “superbug” stanno infatti colpendo anche le specie selvatiche.

Il passaggio da uomo a animali avviene sempre con più frequenza, sia per interazione diretta con l’uomo che in modo indiretto, ad esempio da falde acquifere contaminate da scarichi fognari da cui gli animali si abbeverano. Ed emergono già le prime situazioni di rischio.

I superbug hanno infatti già colpito alcune colonie di pinguini e vari leoni marini in tutto il mondo. E in Australia, uno dei Paesi più colpiti dal problema, ne sono caduti vittima i diavoli della Tasmania, gli scoiattoli volanti, i porcospini, alcune varietà di canguro e wallaby, nonché gli opossum dalla coda a pennello. Il problema è più evidente per gli esemplari allevati in cattività: il 41% degli scoiattoli volanti d’allevamento soffre di farmaco-resistenza – contro il 5.3% degli esemplari in natura – seguiti dal 40% di wallaby, canguri e leoni marini. Il record negativo è però detenuto dal 48% degli opossum.

Che fare

È evidente che, per limitare il problema della circolazione dei superbug, sia necessaria un’azione di concerto. Delle misure che non riguardino unicamente la salute umana ma anche quella animale e che, ovviamente, non rimuovano dall’equazione il tema dell’inquinamento e della contaminazione ambientale.

Per questa ragione, l’OMS ha lanciato l’approccio “One Health”: un progetto che mira a studiare la resistenza agli antibiotici con un approccio multidisciplinare, analizzando l’impatto sugli uomini, sugli animali domestici, sugli esemplari selvatici e il rapporto tra ambiente e inquinamento.

Ancora, a medici e pazienti viene suggerito di limitare l’assunzione di antibiotici quando è strettamente necessario, mentre alle istituzioni pubbliche di implementare sistemi di depurazione e filtraggio affinché i residui di antibiotici non vadano a contaminare le falde acquifere.

Fonte: The Conversation

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