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Shale Gas o gas di scisto: cosa c’è da sapere

Guida allo shale gas, il gas di scisto che si estrae con la tecnica del fracking, spesso causa di terremoti, inquinamento delle acque e fuoriuscite di metano.

Shale Gas o gas di scisto: cosa c’è da sapere

Con il termine di shale gas, o gas di scisto in italiano, si intende il gas naturale intrappolato nelle rocce poco porose ad alta profondità. Si tratta di gas a tutti gli effetti, in buona parte metano, che però non si trova in un normale giacimento e, di conseguenza, non basta trivellare un pozzo tradizionale per tirarlo fuori. Per estrarlo si usano due tecniche: la trivellazione orizzontale e il fracking idraulico, anche detto hydraulic fracturing. Entrambe sono tecniche già note all’industria petrolifera da diversi anni, ma solo di recente si è scoperto che usandole insieme si può pompare dal sottosuolo il gas intrappolato negli scisti e altri idrocarburi non convenzionali.

Negli ultimi anni lo shale gas è stato il protagonista indiscusso degli scenari energetici, soprattutto negli Stati Uniti dove è partita una nuova corsa all’oro che ha portato alla trivellazione di centinaia di pozzi per estrarre gas di scisto. Per comprendere bene la questione shale gas bisogna chiedersi quanto ce ne sia e dove nel mondo, quali ripercussioni sull’ambiente possano avere le trivellazioni orizzontali e il fracking e quale impatto sulle politiche di riduzione delle emissioni di CO2 avrà lo sviluppo di questo gas.

Shale gas: dove e quanto

Una vera e propria mappa dello shale gas non esiste. Rispetto al gas convenzionale, contenuto in una sacca naturale sotto terra, il gas di scisto è difficile da quantificare finché non lo si estrae. Essendo intrappolato nella roccia, infatti, è quasi impossibile avere una fotografia realistica di quanto gas contenga un giacimento di shale gas. Le stime dell’Unione europea parlano di circa 450 trilioni di metri cubi, cioè 450.000 miliardi, a livello mondiale.

Se fossero confermate e se tutto lo shale gas del mondo fosse a disposizione dell’Italia il nostro paese, al consumo annuale attuale di 80 miliardi di metri cubi (cioè circa quanto shale gas hanno prodotto gli Stati Uniti nel 2009), ne avrebbe per oltre 5.600 anni. Ma, come abbiamo già visto, è difficile dire se queste stime siano realistiche o errate, in eccesso o in difetto. In ogni caso, in Europa, di shale gas ce n’è relativamente poco. Come mostrano i dati del Joint Research Centre (JRC) dell’Ue:

  • Nord America = 108.3;
  • America Latina e Caraibi = 59.7;
  • Europa occidentale = 14.4;
  • Europa centrale e orientale = 1.1;
  • Ex Unione Sovietica = 17.7;
  • Medio Oriente e Nord Africa  = 71.8;
  • Africa sub-sahariana = 7.7;
  • Asia centrale e Cina = 99.4;
  • Asia meridionale = 65.2;
  • Asia pacifica = 8.8.

L’Europa avrebbe a disposizione 14.400 miliardi di metri cubi di gas di scisto, a fronte di un consumo annuale di circa 500 miliardi di metri cubi. Consumando solo shale gas europeo il vecchio continente avrebbe meno di 29 anni di autonomia. In realtà non c’è solo lo shale gas: c’è anche il gas convenzionale, sia estratto in loco che importato dall’estero. Soprattutto ex Unione Sovietica e Medio Oriente. Nel 2009 l’Europa (considerata solo come UE a 27) ha prodotto poco più di 150 miliardi di metri cubi di gas, circa il 45% dei suoi consumi, e tutto il resto lo ha importato:

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Va notato, però, che produrre shale gas non è sempre conveniente. L’estrazione degli idrocarburi non convenzionali, mediamente, diventa economicamente sostenibile solo quando il barile di petrolio supera i 70 dollari. Il prezzo del gas, quasi sempre, è collegato a quello del petrolio. Spremere gli scisti, quindi, conviene solo finché il prezzo del petrolio è alto come negli ultimi anni. Si stima che l’industria del petrolio, a livello mondiale, abbia speso circa 1,5 trilioni di dollari negli ultimi tre anni (500 miliardi l’anno) in studi geologici, nuova strumentazione e attrezzature necessarie a estrarre idrocarburi non convenzionali. Nessuno lo dice, ma se la benzina è a due euro è anche per questo.

Trivellazioni orizzontali e fracking

Il motivo per cui lo shale gas è tanto contestato è sintetizzabile in queste due parole. L’accoppiata tra le trivellazioni orizzontali e il fracking idraulico, infatti, oltre a permettere l’estrazione di questo gas è fortemente sospettata di causare danni (o quanto meno seri rischi) al sottosuolo. Capire come funziona il processo aiuta a comprendere i rischi. In un pozzo tradizionale la trivella scende in verticale, accompagnata da grandi quantità di fluido di trivellazione che diminuisce l’attrito, raffredda l’attrezzatura e tiene in pressione il pozzo.

Solitamente la trivella, nella prima parte del suo percorso, attraversa una o più falde acquifere e per questo si usa la tecnica del “casing”. Una sorta di cappotto di acciaio e cemento inserito nel pozzo per renderlo a tenuta stagna e impedire che il petrolio, il gas o il fluido di trivellazione entrino a contatto con l’acqua dolce destinata all’uso umano inquinandola gravemente. Per estrarre lo shale gas a tutto questo si aggiunge una seconda e una terza fase. Una volta fatto il buco in verticale la trivella viene fatta progressivamente deviare finché non si trova a lavorare in orizzontale, rispetto al piano del terreno, in direzione del giacimento roccioso.

Una volta raggiunto lo scisto si inserisce dell’esplosivo nel canale scavato dalla trivella, al fine di fratturare la roccia creando delle grosse fessure. Fatto ciò si pompa ad alta pressione dell’acqua con sabbia e agenti chimici al fine di microfratturare ulteriormente lo scisto e liberare il gas che contiene. Questa procedura viene ripetuta più volte facendo procedere a passo di gambero la trivella, facendo più esplosioni e più pompaggi per ogni condotto. E, dalla trivellazione verticale, si procede a fare altre deviazioni orizzontali in modo da fratturare il più possibile la roccia.

In questo modo, da un solo pozzo visibile in superficie, si possono realizzare anche dieci vie d’uscita per il gas. Ognuna delle quali comporta varie cariche di esplosivo e conseguente pompaggio del fluido. Questo video, meglio delle parole, spiega il procedimento:

Rischi potenziali del fracking

Il fracking ha ricevuto, e continua a ricevere, numerose critiche a causa dei rischi che comporta e dei potenziali pericoli per l’uomo e per l’ambiente. Il primo rischio deriva dalla fratturazione del sottosuolo, che può renderlo instabile e che spesso e volentieri causa terremoti fino al grado 3,6 della scala Richter. Non sono scosse di grande entità, ma è chiaramente un segno che qualcosa, sotto terra, si muove e sfugge al controllo dell’uomo.

Altro rischio deriva dal mix di sostanze utilizzato per confezionare il fluido da pompare nelle fessure della roccia per aprirle e fare uscire il gas. Di solito è formato al 99,5% da acqua e sabbia, ma nel restante 0,5% sono contenute sostanze chimiche che possono essere pericolose per la salute:

  • Acido idrocloridico;
  • Acido muriatico;
  • Glutaraldehyde;
  • Persolfato di ammonio;
  • N,N-dimethyl formaldeide;
  • Distillato di petrolio;
  • Etilidrossietilcellulosa;
  • Acido citrico;
  • Cloruro di potassio;
  • Carbonato di sodio o di potassio;
  • Glicoletilene;
  • Isopropanolo.

Si può facilmente intuire che alcune di queste sostanze sono innocue, mentre altre estremamente pericolose. C’è poi il rischio radiazioni, dovuto alla possibilità (abitudine, negli Stati Uniti) che venga inserita una barretta di materiale radioattivo all’interno del pozzo al fine di tracciare le fessure create nella roccia e capire se siano o meno sufficienti a fare uscire il gas. Infine, c’è la possibilità che durante le operazioni di trivellazione e di estrazione del gas avvenga la contaminazione delle falde acquifere, sia superficiali che profonde.

Ciò è dovuto al fatto che durante la sua discesa nelle viscere della terra la trivella incrocia spesso delle vene d’acqua dolce che, a sua volta, può entrare in contatto con i fanghi di trivellazione, col fluido usato per il fracking e con lo stesso gas naturale. E questo è l’aspetto più inquietante perché le fughe di metano nell’acqua sembrano molto diffuse nelle zone dove si estrae lo shale gas. Come dimostrano i numerosi video pubblicati su YouTube da comuni cittadini americani che, avvicinando un fiammifero o un accendino al rubinetto del lavandino scoprono di avere un lanciafiamme in casa.

Le multinazionali del petrolio e del gas di solito rispondono a questa critica affermando che il fenomeno è impossibile perché il pozzo trivellato viene cementato con la tecnica del casing, che abbiamo già descritto. Ma ciò sarebbe vero solo in un pozzo tradizionale, non nel caso del fracking e delle trivellazioni orizzontali: il gas metano, come tutti i gas, non viaggia in orizzontale ma in verticale e, una volta liberato dalla roccia dove era imprigionato da millenni, va dove trova strada.

Avendo l’uomo spaccato il sottosuolo, prima compatto, non è mai possibile escludere che il metano trovi una via per salire in verticale verso la superficie terrestre incontrando, eventualmente, una falda acquifera. E dalla falda al rubinetto il passo è breve.

Gli impatti sul clima del gas di scisto

C’è poi il problema dell’impatto che lo shale gas ha sul clima. Il primo problema deriva dalle stesse fuoriuscite di gas metano, che è un gas con un potenziale di global warming decine di volte superiore rispetto alla CO2. Il secondo problema è comune anche alle estrazioni di gas convenzionale: la pratica del flaring. Con questo termine si intende l’uso di bruciare il gas in eccesso uscito dal pozzo al fine di far sfogare i picchi di pressione ed evitare esplosioni.

Il gas in eccesso viene bruciato a canna libera, senza alcun filtro e direttamente in atmosfera. Secondo i dati della Banca Mondiale, riportati da Reuters, a causa del boom dello shale gas negli Stati Uniti le emissioni legate al flaring nel 2011 sono cresciute del 4,5% rispetto al 2010. Tutto ciò è stato ammesso persino da Rex Tillerson, il CEO di Exxon Mobil.

Conclusioni

Per terminare questa carrellata sul gas di scisto non resta che ricordare come lo shale gas è riuscito, in un solo anno, a far crollare il prezzo del gas mettendolo in diretta competizione con il carbone. Non è raro, infatti, sentire i fan degli scisti affermare che questo gas è il combustibile d’elezione per sostituire il carbone con un conseguente impatto positivo anche sulle emissioni di CO2. Dal punto di vista matematico, in effetti, sostituendo il 100% del carbone usato nel mondo per la generazione elettrica con lo shale gas ci sarebbe un calo della CO2 emessa.

Da un punto di vista macroeconomico e politico, invece, è interessante l’analisi dell’ENEA italiana che mette in luce come puntare sul gas di scisto non fa altro che distogliere l’attenzione dalle rinnovabili. Analisi attendibile perché riporta i dati contenuti nello special report della IEA sul gas non convenzionale “Golden Rules for a Golden Age of Gas“. Ogni eventuale spinta verso lo shale gas, in ogni caso, dovrebbe essere ponderata dopo aver letto il rapporto dell’Unione europea sui suoi potenziali rischi. Nel quale è contenuta questa tabella che sintetizza perfettamente tutto ciò di cui abbiamo parlato fino a ora:

Ue: rapporto sui pericoli dello shale gas e del fracking

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